Gianluigi de Gennaro ci racconta il suo percorso di ricerca, dalla diagnosi precoce del tumore del colon retto alla farmacocinetica. E di come il respiro racconta di noi e delle nostre patologie
È ricercatore di Chimica dell’Ambiente presso il Dipartimento di Biologia dell’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”. Non solo. Il prof. Gianluigi de Gennaro è stato l’anima scientifica del cluster tecnologico multidisciplinare “Inside the breath”, dalla cui ricerca è nato il campionatore Mistral. Gli abbiamo chiesto del suo gruppo di lavoro e di quale futuro immagina per la breathomica.
Qual è l’origine del suo interesse su i Voc (Composti Organici Volatili)?
Nel nostro gruppo di ricerca presso l’Università di Bari, ci occupiamo storicamente di fare analisi di composti organici volatili in altre matrici, in particolare nell’atmosfera: facciamo monitoraggi della qualità dell’aria per verificare la presenza di questi composti, eventualmente l’origine, le reazioni, i loro comportamenti in atmosfera.
Quando ne cominciammo a parlare la prima volta, nel 2007-2008, sembrava una favola esotica supportata dall’entusiasmo dei nostri studenti. I giovani spesso danno la spinta per affrontare nuove iniziative, mettono un po’ di creazione in più, non solo di creatività, ma proprio di creazione, nei processi e, quindi, sono i primi a vedere le novità. A queste novità, tu devi avere la forza e il pensiero di stare dietro e, nel nostro gruppo, è stato sempre così, abbiamo dato particolare attenzione e interesse all’innovazione.
Poi era un fronte su cui ci eravamo già cimentati ma in altri settori, quindi non è stato difficile, quanto meno, provare.
Qual era la scommessa?
La scommessa era quella di verificare se le sostanze ritrovate nel respiro umano potessero essere indicatori di patologia, di meccanismi non ordinati all’interno del nostro organismo, di metabolismi che non andavano bene e che in qualche modo determinavano una variazione, in più o in meno, di concentrazione dei composti organici volatili.
L’altro elemento che, ci ha aiutato in questa progressione scientifica, è stata la possibilità – vista l’esperienza che avevano anche nel comparto ambientale – di utilizzare metodologie per il trattamento dei dati, di un gran numero di dati, in quanto sin dall’inizio abbiamo intuito che questa variazione era a carico di più composti organici volatili e la sua significatività poteva derivare, appunto, dal combinato di queste informazioni. è come se, a un certo punto, ci sia stata una congiuntura stradale: da una parte i giovani che proponevano di innovare, dall’altra i colleghi di medicina che aspettavano di avere nuovi strumenti per la diagnostica. Questi due bisogni si sono incontrati con un’offerta di compresenze che riguardava l’analisi dei composti organici volatili e la capacità di trattare dati su più dimensioni. Tutto questo, insieme alla fede che tutto possa funzionare e l’impegno che ci ha messo ciascuno, ha creato l’innovazione. Innovazione che, su altri fronti, era già stata verificata da alcuni colleghi, ma nel caso del colon retto era una novità in assoluto perché si trattava dei primi studi che venivano fatti al mondo su questo settore. Precedentemente era stato attenzionato con questa metodologia il polmone: l’organo naturalmente predisposto a portare con il respiro un’informazione che lo riguarda. La scommessa era, invece, che questa informazione fosse dal polmone trasferita nel sangue: l’intuizione risiedeva nell’idea che il sangue anche nei distretti più marginali potesse trasportare l’informazione e rilasciarla a livello dello scambio alveolare. Un po’ come si fa nello storytelling.
Ha accennato alla multidisciplinarietà e mi viene in mente anche il rapporto con le imprese. C’è stata collaborazione?
Tantissima, da parte di tutti gli attori. L’interdisciplinarietà, chiaramente, determina conflitti tra individui, tra domini, linguaggi, competenze con il rischio che una disciplina risulti egemone rispetto alle altre. Insomma, queste sono le tare classiche dei sistemi accademici in Italia. Dove altri paesi hanno un’impostazione multidisciplinare, il nostro si porta dietro vecchi retaggi legati alla purezza della competenza. Tutto quello che è contaminazione è spurio e nessuno riconosce percorsi spuri. Esistono le commissioni disciplinari, ma quando un progetto è interdisciplinare, si pone anche il problema di chi lo deve valutare. Eppure, la combinazione che avviene tra discipline che magari non hanno un passato, un confronto, genera opportunità. È in queste connessioni che serve esplorare. Qualche volta costa meno in termini economici, molto di più in termini di rischio, di confronto, di relazione.
Anche il rapporto con le imprese è un processo che, qualche volta, non si vuole esplorare perché ci sono obiettivi diversi e farli coincidere diventa un compromesso. Poi c’è anche il problema delle risorse e delle reciproche competenze. Molto meglio quando l’idea nasce prima della disponibilità economica per realizzarla: su un obiettivo comune il finanziamento, diventa una spinta ulteriore, un propulsore, la pacca sulla spalla, non il motivo per cui si lavora insieme. Il fine è sul prodotto, sul servizio che si vuole portare avanti e questo determina motivazioni diverse, nuove evoluzioni anche durevoli nel tempo. In alternativa quando finisce il finanziamento finisce il senso di stare insieme.
Siamo partiti dalla diagnosi precoce del tumore al colon retto, ma che tipo di speranze danno questi biomarcatori in una prospettiva di medio-lungo termine?
Vogliamo trasferire ad altre patologie questa metodologia, ma anche esplorare altri fronti, legati, per esempio, alle frontiere della farmacocinetica: vedere come un farmaco può trasformarsi all’interno del nostro organismo monitorando continuamente il respiro: questo può dare informazioni rispetto alla capacità di un farmaco di funzionare o meno.
La prospettiva è quella di avere un biomarcatore, come ce ne sono in altri fluidi come il sangue o le urine. Il campione di respiro è più facile e meno invasivo da rilevare, per cui si può utilizzare per studi di maggiore entità, l’evoluzione è farlo diventare un marcatore di ampio spettro e che quindi non serva soltanto per le malattie, ma anche per monitorare tutti i processi e le interazioni che si sviluppano nell’organismo: come reagiscono i farmaci, come si metabolizzano i cibi.
Quali le caratteristiche di Mistral, rispetto alle altre macchine sul mercato?
Mistral è stato pensato per organizzare, cioè campionare e analizzare il respiro in maniera riproducibile, in una parola sola, standardizzare la metodologia. Ci siamo riusciti: rispetto ai suoi competitor è il meglio sul mercato.
Inoltre, non ha soltanto un obiettivo, ma è in grado di recuperare anche altre informazioni che non sono soltanto contenute nel respiro. Le mette insieme e in un’ottica di utilizzo attraverso l’intelligenza artificiale le elabora per avere dati, per esempio, sull’epidemiologia, sulla prevalenza di alcune malattie in alcuni territori. Rispetto ad altri strumenti ha provato, quindi, ad affrontare anche la sfida della medicina personalizzata.
(intervista di Mario Maffei)